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il manifesto - 07 Aprile 2004 CULTURA pagina 15
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pag.14

Il marchio del genocidio
DANIELA PADOAN
 
La menzogna dell'odio tribale
D. PAD.
 

pag.15

Crusoe alla deriva nella «natura» dell'asservimento
SANDRO CHIGNOLA
 
Pittoscultura in bilico
MIRELLA BENTIVOGLIO
 
ARCHEOLOGIA
«Vitrum», da Pompei a Palazzo Pitti
 
 

apertura

Crusoe alla deriva nella «natura» dell'asservimento
Riproposto un saggio di Alfonso Iacono che indaga le immagini dell'uomo isolato in Defoe, Turgot e Adam Smith. Nella solitudine dello stato di natura Robinson sopravvive grazie ai suoi utensili, eredità storica e lavoro cristallizzato della società europea. E grazie al fucile l'incontro tra il «borghese» e il «selvaggio» avviene sotto l'egida del dominio
SANDRO CHIGNOLA
Nel discorso sul sociale, o del sociale, è spesso implicito un residuo naturalista. Si tratti dell'apologetica sulle dinamiche di autoregolazione del mercato, delle retoriche della società civile o della supposta autoconsistenza del soggetto che la moderna teoria erige al centro dei processi di socializzazione politica, ciò che viene implicitamente assunto è che esista una sorta di «natura» della società e che quest'ultima sia prefigurata negli individui che in essa portano a esecuzione un'innata predisposizione sociale. Viene con ciò rimosso l'effetto di realtà con il quale categorie e concetti della scienza politica, discipline dell'economia, saperi del diritto, costruiscono il rapporto tra gli uomini, stabilizzano i loro comportamenti, rendono lineari e neutri aspettative e bisogni, esorcizzano in via preventiva la possibilità stessa del conflitto tra di loro. Quella che il teorico identifica come la «natura» del sociale, rappresenta piuttosto il prodotto di una specifica immaginazione dell'uomo e dei rapporti che esso appare in grado di intessere con i suoi simili. Deve essere pensata come il prodotto di una messa in prospettiva storicamente determinata della verità. Quanto vale per i saperi e gli apparati categoriali del sociale - e cioè che concetti e quadri disciplinari del diritto, dell'economia e della politica debbano essere pensati in termini storici per poterne cogliere determinatezza e produttività in relazione all'organizzazione e alla stabilizzazione dei processi che essi contribuiscono ad innescare e a tenere in tensione -, vale anche per l'antropologia, assunta quale fondamento delle scienze umane.

Il tema dell'«uomo isolato» (Robinson il naufrago, il selvaggio allo stato naturale, l'individuo immaginato nel «rozzo stadio» della società che precede l'ingresso nella storia e che fornisce a filosofi e moralisti del secolo XVIII il paradigma sul quale basarsi per immaginare evoluzione e forme del rapporto sociale) svolge esattamente la cifra di questa ambivalenza. Da un lato presupposto per l'analisi di una condizione che si vuole naturale ed universale. Dall'altro effetto di una costruzione che universalizza di fatto una specifica immaginazione di che cosa l'uomo sia e di quali siano le sue priorità.

Alle concezioni filosofiche e ideologiche che restano implicite nell'immagine dell'uomo isolato e che di quest'ultima rappresentano, piuttosto, il non detto, e a come il tema venga di volta in volta declinandosi in Defoe, Turgot ed Adam Smith, Alfonso M. Iacono ha dedicato qualche anno fa un libro, che viene ora nuovamente messo a disposizione dei lettori (Il borghese e il selvaggio. L'immagine dell'uomo isolato nei paradigmi di Defoe, Turgot e Adam Smith, ETS, € 13).

Ciò che «robinsonate» e descrizioni di stati primitivi hanno in comune, è l'idea che l'astrazione in grado di isolare l'individuo rappresenti il modo migliore per analizzare i tratti fondamentali dei dispositivi di socializzazione che la scienza economica o la filosofia politica indagano nella sfera della cooperazione e dello scambio o che definiscono come «società». Far naufragare Robinson significa decostruire le prospettiva che assume come naturali le condizioni di socialità, isolare l'individuo come portatore di interessi e di bisogni e opporre a quest'ultimo la società come semplice strumento per la soddisfazione dei suoi fini privati. Significa, come per motivi diversi riconosceranno Rousseau e Böhm Bawerk, semplificare sino al loro grado minimo il rapporto tra uomini e cose per rendere esplicite le dinamiche del meccanismo che si tratta di ricostruire a partire dagli «istinti» naturali e dalle predisposizioni che è possibile rinvenire nell'individuo.

Una più attenta lettura del racconto di Defoe non dovrebbe tuttavia autorizzare una così drastica semplificazione. Ciò che permette infatti a Robinson di sopravvivere sull'isola (e di imporre il proprio dominio a Venerdì) è il lavoro sociale cristallizzato negli utensili che egli recupera dopo il naufragio. Fucile, munizioni, tenda e quant'altro Robinson può adoperare per rendersi più facile la vita non sono il prodotto dell'abilità imprenditoriale di un isolato free rider, ma rappresentano piuttosto ciò che egli eredita da un transito sociale già avvenuto e che risulta integralmente incorporato nelle condizioni che presiedono alla rappresentazione complessiva del suo isolamento e della sua solitudine.

La differenza tra le «robinsonate» degli economisti e di Rousseau e il Robinson di Defoe sta tutta dentro questa anticipazione. Per i primi, l'individuo isolato è la precondizione di un'uguaglianza formale tra coloro che sono implicati nello scambio e nella divisione del lavoro. Per Defoe invece il soggetto viene inevitabilmente pensato sulla base di un implicito che riverbera nel rapporto di puro dominio con il terrorizzato Venerdì e che la potenza dello scambio si trova a conoscere nella forma asimmetrica (e coloniale) dell'esplosione del primo colpo di fucile.

E' questo asservimento, la dinamica di un riconoscimento permeato di rapporti di cooperazione e di forza che precedono l'incontro tra Robinson e Venerdì e che strutturano l'antropologia proprietaria dello stesso individuo postulato come isolato, il non detto implicito nella rappresentazione settecentesca dello stato di natura. La «naturalizzazione» dei rapporti tra gli individui muove da una immaginazione che introietta nel dispositivo dello scambio il tema dell'alterità, identificandola senza resto al ruolo di strumento per il perseguimento degli scopi privati del singolo e che universalizza la forma di sfruttamento propria al modo di produzione capitalista.

Questa naturalizzazione e questa universalizzazione di un modello antropologico costruito sul primato della produzione e dello scambio di merci e che privilegia la dimensione strumentale del rapporto di pura utilità tra uomini e cose, determinano anche il quadro di una specifica visione della storia e della sua evoluzione. In Turgot e in Adam Smith il «rozzo stadio dell'umanità» definisce il presupposto per una rappresentazione in termini stadiali del progresso storico che tende a postulare retrospettivamente come necessario, e come assiologicamente connotato in termini comparativisticamente positivi, il sistema di rapporti e di valori propri alla borghesia europea in ascesa.

La definizione del cominciamento della storia in uno stato selvaggio che l'Europa ha da tempo abbandonato e che consente di aprire uno spazio comparativo con civiltà altre, il cui presente disegna, per riprendere un tema blochiano che torna non soltanto in Reinhart Koselleck, autore citato da Iacono, ma anche in un teorico del postcolonialismo come Dipesh Chakrabarty, la contemporaneità del non contemporaneo, rappresenta la retroproiezione di un'idea orientata di sviluppo che agisce sul modo in cui viene interpretata la naturale predisposizione dell'individuo a rapporti improntati allo scambio e all'accumulazione e che permette di «primitivizzare», aggiogandole con ciò alla dipendenza da un unico decorso storico, forme sociali e civiltà percepite come esotiche o come differenti. Questa differenza viene così pensata come effetto di una lacuna, di un ritardo, entro la linea ininterrotta di un progresso che viene definito a partire dal presente normativo della società occidentale, il cui successo viene identificato con il sistema di rapporti evolutosi attraverso la divisione del lavoro e l'appropriazione della natura. E il non contemporaneo, il primitivo, diventano quello che la comparazione restituisce come subalterno, dominato e dominabile.

La finzione retorica di un «rozzo stadio della società» permette di rendere visibile in Adam Smith e Turgot ciò che l'intelligenza borghese tende di per sé a tacere: il fatto che la condizione sociale, omologata alla divisione del lavoro, venga supposta come il semplice mezzo attraverso il quale il singolo perviene alla realizzazione degli scopi privati di un'azione che incontra gli altri solo come entità utilizzabili. Che il soggetto maschio, bianco ed europeo, immagini se stesso come l'unica espressione possibile dell'individualità in tutti i sistemi sociali.

Sono queste specificazioni, riflesso di una struttura del dominio che attraversa l'intero spettro della storia, il rimosso dello stato di natura. Il moderno soggetto di diritto viene pensato a partire da un lavoro di astrazione, che suppone di rendere trasparenti i meccanismi e le dinamiche che spingono naturalmente il processo di socializzazione. E che pensa il soggetto a partire da una formalizzazione in grado di mettere a tacere il semplice fatto che quella che viene universalizzata come la condizione naturale dell'uomo viene invece totalitaristicamente pensata muovendo da quadri categoriali e concettuali che si sono storicamente evoluti come puri rapporti di forza. Quegli stessi rapporti di sfruttamento e di dominio che striano l'apparente levigatezza dello spazio globale.


 
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