|
|
Libero, Ribelle, Avanti...
La Romagna fa l'appello
16/7/2005
PENSATE a una classe di qualche nostra scuola
dell'obbligo dove, al momento dell'appello, risuonassero i nomi
di Antidio e Dinamitarda, di Demos e di Anticlera, di Spartaco,
Vindice e Saturno. Proseguendo poi, magari, con Ribelle, Jacobina
e Comunardo; con un Ulliano, per ricordare Lenin, o una Rosamburga
(ovviamente in omaggio a Rosa Luxemburg), sino a concludere
con Diavolinda e Nastas (anagramma di Satana). Un tale succedersi
di nomi - che paiono eplodere come botti fragorosi contro la
religione, come fucilate contro il potere - parrebbe del tutto
improbabile, sia nell'Italia di oggi sia in quella di ieri.
Tuttavia un'eccezione potrebbe esserci: la Romagna. E va a dimostrarlo,
con una ricchezza inusitata di esempi e una felice freschezza
narrativa, Tino Dalla Valle, autore prematuramente scomparso
de La Romagna dei nomi, volume pubblicato per la prima
volta dalla casa editrice Il Girasole di Ravenna nel 1984 e
giunto ormai alla settima edizione. Ci sono varie ipotesi, tutte
ben vagliate da Dalla Valle, circa le ragioni che hanno fatto
in passato, e seppure in misura minore fanno ancora della Romagna,
un territorio a ´denominazione incontrollataª, almeno nell'attribuire
ai nuovi nati nomi estremamente originali, fantasiosi, impegnativi.
Sicuramente le forti passioni politiche che hanno connotato
a lungo, sia nell'Ottocento sia nel Novecento, le popolazioni
romagnole possono spiegare la propensione ad attribuire ai figli
nomi che ne fanno, seppure ancora in fasce, gli adepti di un
esibito credo ideologico, di un'irrinunciabile militanza. Come
dottamente spiegano gli studiosi della materia, nel dare un
nome ai nuovi nati le famiglie possono seguire due strade. La
prima, definita ´child-orientedª, dunque baricentrata sulle
esigenze future del bambino, ´si traduce in un cosciente processo
di spersonalizzazione, di rinuncia a ideologie, ambizioni, gusti
personali cosÏ da individuare un nome che non sia dannoso, oneroso
o fastidioso per il nuovo natoª. L'altra strada, ´parent-orientedª,
va in senso nettamente contrario. Dunque fa del nome assegnato
al neonato una bandiera che non è detto sia sempre comoda
e agevole per chi si troverà a doverci convivere tutta
una vita. Pensiamo alla confortevolezza d'accoglimento che a
scuola, nelle istituzioni, o sul lavoro, debbono aver avuto,
in epoca fascista, coloro che, in anni precedenti, avevano ereditato
nomi quali Libero, Ribelle, Avanti (proprio come il quotidiano
socialista, ma senza il punto esclamativo) cosa accaduta effettivamente
a tre fratelli di Lugo. Non più fortunate le quattro
sorelle di Cesenatico che furono chiamate Ribelle, Atea, Libertà,
Rivoluzione. Per non parlare dei due fratelli Primomaggio e
Settimanarossa cresciuti presso Ravenna. L'impressione nettissima,
procedendo lungo i capitoli del libro di Dalla Valle, è
che in Romagna sia stato assai diffuso, e per lungo tempo, il
ricorso alla denominazione ´parent-oriented' e comprenderne
le ragioni porterebbe in luce, sicuramente, molti aspetti tutt'altro
che irrilevanti dei caratteri originali delle comunitý romagnole.
Certamente l'indipendenza e l'estro singolare con cui le famiglie
del ravennate, del forlivese, del ferrarese, del cesenate, hanno
attribuito ai loro figli nomi piuttosto bizzarri non è
attribuibile solo a motivi politici ed ideologici. Le sapidissime,
sintetiche storie con cui, in poche battute, l'autore de La
Romagna dei nomi racconta l'origine di nomi assai inusuali,
dimostra come l'originalità espressa in molte famiglie
fosse assai pervasiva e si alimentasse di diversificate fonti
che andavano dalle passioni musicali dei genitori alle memorie
di felici o ostili incontri, da strampalate tradizioni famigliari
a mitizzazioni di personaggi dai quali si era ossessionati.
Se emigranti di ritorno chiamavano i figli Amerigo, altri,
prigionieri in Galizia durante la prima guerra mondiale, fecero
omaggio di quel nome alle loro figlie. E, a questi infanti,
è andata meglio che ai due - fratello e sorella - di
Forlì che sono stati chiamati Oro e Sterlina, dopo la
crisi economica del '29. Per non parlare dei fratelli che, avendo
un padre appassionato di storia locale, si sono trovati imposti
dal genitore i nomi di vescovi che ressero la diocesi di Bertinoro
in epoca longobarda e che si chiamavano Alfriso, Agilulfo, Temperto,
Ausarico, Lanfrando.
In Romagna continuano a piacere molto
anche i nomi forti retti dalla R (tipico esempio è
un nome che viene dalla Normandia, Raoul, e che spesso l'anagrafe
e le famiglie hanno storpiato in variegatissimi modi, tanto
che non mancano né i Ravoul né i Roual). Prediletti
in Romagna anche i nomi che finiscono con er: Jader e Adler,
Dimer e Imer, Dover e Weber, Rover e Azer, Eurer e Maner,
Aster e Umber, nei decenni scorsi sono stati ammanniti in
abbondanza, sia a maschietti che a femminucce. E sarebbe bello
comprendere, anche in questo caso, a quali fantasmi si ispira
l'attribuzione di questi nomi.
Il tema dell'attribuzione dei nomi
nella letteratura dell'Ottocento e del Novecento è
affrontato nel libro, di grande interesse e di curatissima
scrittura, Nomi
di cenere di Luigi Sasso, pubblicato dalle Edizioni
ETS di Pisa nella collana Nominatio, collana di Studi
Onomastici. Nel saggio, oltre a indagare sul perchÈ ai personaggi
che si muovono tra le pagine di testi noti e meno noti sono
stati attribuiti determinati nomi e cognomi, Luigi Sasso si
sofferma anche sulla ´fabbrica degli pseudonimiª. Vale a dire
sul processo con cui gli autori pongono, tra sé e i
propri testi, una maschera. Dando vita a una metamorfosi che
apparentemente vuole celare e prendere le distanze ma che,
se investigata con la sagacia dispiegata in questo libro,
svela non poco sulle connotazione biografiche e sui processi
creativi dello scrittore.
Così dal classico esempio dell'Ettore Schmitz
al quale ´faceva pena quella povera i fracassata da tante
consonanti', e dunque decide di essere Italo Svevo (e il perché
di questo pseudonimo Sasso non manca di spiegarlo) si vola
sopra altre dozzine di battesimi letterari. Come quello del
protagonista canettiano di Auto da fé, nato come
Brand, cioè ´incendioª in tedesco, e diventato - già
in bozze - ´Kien', vale a dire ´legno resinoso'. Nomi di cenere,
appunto. Ovvero l'illuminazione del bagliore e la dispersione
dello spegnimento. Un movimento senza fine, proprio come vorrebbe
essere la scrittura.
gboatti@venus.it
|